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Ore di città/02

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Il caffè della sciora Cechina

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Era in piazza Fontana davanti all'Arcivescovado e c'era non so da quando.

Quei bei mercantoni di campagna ross come poll che piovono in città due volte la settimana andavan lì a bere un litro e a mangiare un boccone dopo aver fatto la piazza e prima di saltar sul biroccino e... «iupp!»... via!

Il sabato e il martedì non c'era un posto libero in tutto il cafferino. In quel tempo le udienze in Tribunale si tenevano dalle 12 e mezza alla 1 e mezza e qualche volta ci capitavo anch'io. Mi mettevano su un angolo di tavolo con una mezza tovaglietta sotto; di contro avevo per lo più vuna de quij facc de brentador che così per attaccar discorso mi domandava: «Lu in cosa el commercia?»

Un bel giorno i mercantoni con loro grande stupore trovarono l'uscio di legno. Giù le saracinesche, tutto chiuso. La signora Cecchina stava di casa di sopra negli ammezzati. Gli avventori non potevano darsi pace. Qualcuno buttò dei sassolini sulle gelosie: «Ej... bottega?» Due o tre andarono su a confabulare: «Ma com'è? L'ha saraa sù?» «Segura, ven denter la Banca». «Ma che Banca?» «La vostra. La Banca Nazionale dell'Agricoltura». «E lee?» «Mi desmetti». Volevano i vecchi ed affezionati clienti che la signora Cecchina dasse loro da mangiare in casa, magari in cucina, dove voleva lei ma non li mettesse in strada dopo tanti anni! «Insomma, la ghe stà no!» Chiuso il Caffè il mio povero papà rimase come senza una gamba. Era già vecchio e da allora la sera non uscì quasi più di casa. Al Caffè di piazza Fontana ci andava da quasi un secolo el scior Luon che aveva visto succedersi al banco tre o quattro signore Cecchine. «Dove l'era, scior Luon, quel tavol chì la sira del 6 Febbraio?» Ci veniva, immancabile, (primo tavolo a destra entrando) l'avvocato Lovati padre coi suoi figli già uomini fatti. Si sedevano senza discorsi ma nessuno mangiava. Il primo a servirsi doveva essere il genitore: chi trasgrediva era subito ammonito: «Rispetta tò pader». La saletta a sinistra era riservata alla compagnia dei giocatori di foot-ball che allora era uno sport senza importanza e come tutti gli altri. Durante la guerra la saletta si era vuotata di colpo. Tutti là... uno sul Carso... uno in Val Lagarina... Di tanto in tanto veniva qualche brutta notizia al banco della sciora Cecchina: «L'ha sentii? I parent del Gusto han ricevuu la lettera... ma sì, el Gusto!... Quel biondon... già, m'han ditt sul Sabotino». Il tavolo dei vecchioni commentava: «Mah... la guerra!» Nonostante che fossero nostri alleati gli inglesi non godevano su quei divani di velluto troppo buona stampa: «Perfida Albione» diceva il signor Radius. «Tiren l'acqua al sò molin» aggiungeva mio padre. El Ceser - lo sguattero del Caffè - el voltava indree el sguandarin, azzardava due passi in sala e metteva il becco nella conversazione: «I ingles?! I ingles!? Ma san lor com'eran ona volta?...» «Spettom giusta tì che t'el diset». «Come i besti! Ona volta i ingles camminaven coi man e coi pee come i besti! L'è staa Giulio Cesare quand l'è andaa là e i à vist che andaven in gir come i gatt e el gh'à ditt: ma no... tucc caminen domà coi pee... provii anca violter... e dopo de allora van intorna come num!» El marches Carchen che ai suoi tempi aveva girato mezzo mondo, scoteva la testa in silenzio. Poi vennero i giorni di Caporetto. Mio padre, pessimista, ricordava Lissa e Custoza, il signor Radius che era stato soldato sotto l'Austria (ai cordoni, pei funerali di Radetzki a tenere indietro la gente) e che poi era scappato in Piemonte col '59, era tutto una fiamma di patriottismo. El Ceser parlava di arruolarsi. «Bell soldaa!» brontolava il marchese Carcano. La resistenza, la rivincita, la pace vittoriosa tenevano tutti i discorsi. A un tavolo più in là c'era un gruppetto di clienti, sette o otto sordomuti che giuocavano a carte parlando colle dita velocissimamente. Se un giocatore sparigliava il suo compagno mugolava come una jena e i mugolii felini davan forza agli argomenti sulle origini del conflitto e ai mezzi per risolverlo. El marches Carchen a cavalcioni di una sedia, colle braccia appoggiate allo schienale fumava e taceva. «La guerra! la guerra! semper el solet uguisma, semper quell vorè sciattà!» «Se tucc stassen a cà soa!» «Ma questa però...» Finalmente, in una pausa, venne fuori la definizione del marches Carchen: «Bagajàd... bagajàd!» Capite? Per lui la guerra europea che cos'era infine? Una ragazzata!! Il signor Radius andò in bestia; voleva mettergli il tavolo di marmo sulla testa! Da quella sera sono passati 18 anni e dopo tutto quello che ho visto e mi preparo a vedere non so più chi abbia ragione o torto. El marches Carchen era uno di quei vecchi milanesi tetragoni, corazzati di indifferenza. Mi immagino che essendo come al solito a letto con sua moglie avrebbe potuto benissimo chiamare una mattina il cameriere e dirgli: «Togn! el caffè...» E poi - accennando alla moglie al suo fianco - aggiungere: «Oeuj... vun sol per 'sta volta perchè lee l'è morta sta nott!» ... viaggiava così, senza niente. Il signor Radius lo incontrò una volta alla stazione centrale. Lui carico di valigie e di pacchi prendeva un biglietto per Chiaravalle per poi mettersi in carrozza per Sorighee dove avevano i fondi. L'altro partiva per Boston e non aveva con sé che un panettone e una bottiglia di marsala! ... Finì su una poltrona. Mi ricordo che andai con mio padre a sentir sue notizie in una portineria di piazzetta Durini:

«E inscì? come el sta el scior Carchen?»
«Ben, ben!»
«Ma com'è? L'è minga colpii?»
«Sì... ma el tira là».
«El mangia? el mangia?»
«Alter chè, inscì gh'en dassen!»

... Ma poi venne il crepsylon (il tiro a secco!) Il bel crepsylon coll'i greco come diceva e come si augurava mia nonna...