Ore di città/51
Andare in Teatro
[edit]La signora Antonietta Gussoni mi riceveva in saletta, di faccia al «franklin» - al francolin - che ardeva. Mi faceva sedere sul divanello alla sua sinistra perché le parlassi in quell'orecchio che solo sentiva qualcosa e mi domandava: «Sicchè ier sira l'è staa in Teater... chi l'è che cantava e chi l'à vist? Ch'el me cunta...» Andà in Teater per i vecchi milanesi voleva dire andare al Teatro per eccellenza e cioè alla Scala e non in loggione ma da basso, in platea o in palco.
Era poi di prammatica chieder subito conto dei cantanti e magari della prima ballerina; il maestro direttore d'orchestra interessava sì e no.
«...E donna Costanza Bagatti la gh'era?»
E io a gridarle nell'orecchio.
«L'ò minga veduda...»
«Ma com'è? e so zio el baron Galbiaa el gh'era?...»
A Santo Stefano, inaugurandosi la stagione, in serata di gala, non mancava nessuno.
Una vignetta del Cagnoni sul Guerino rappresentava la Scala vista dal palcoscenico; in ogni palco scorgevi delle mezze figure, qualcosa come delle statue coperte da tele e vedevi gli inservienti che andavano in giro a toglierle e ne venivan fuori i nobilazzi lombardi mummificati lì nei loro palchetti di stagione in stagione, d'anno in anno, sulle loro poltroncine rosse... Gli altri - noi borghesucci voglio dire che abitavamo in via Fieno, in San Simone o in via Piatti - si andava in Teater se qualcuna di quelle nobili famiglie che ci onoravano della loro amicizia si degnava di offrirci le chiavi del palco, non troppo sovente però perché infine l'ingresso costava cinque lire.
Qualche volta si univano le forze di via Fieno, di via Piatti e di San Simone e il palco lo si affittava per una sera. Fu così che vidi la Scala per la prima volta e la Bohème alla sua seconda rappresentazione. Eravamo in dodici asserragliati nel palchetto; mio cugino Leo dal loggione ci scorse, venne giù, si unì a noi e fummo in tredici! Ricordo ancora in corridoio i colli tesi dei nostri vicini esterrefatti nel veder uscire da quel palco negli intervalli tanta gente e fuori... e fuori... pareva chiedessero: «Ma come? ce n'è ancora?»...
Il mio posto non era giù in platea coi fracs e coi décolletés, ma su su per quella scaletta da campanile - tre gradini e una svolta... tre gradini e una svolta - su... su... nel loggione centenario del portiano Bongee! Che mura da Bastiglia, che soffitto basso da Piombi veneziani, e mio padre a dire: «E adess l'è nient, besognava provà quand gh'era el gas!» A quei tempi il gran lampadario centrale prima dello spettacolo lo calavan giù dal soffitto in platea per accenderlo. Appena fatto porta arrivavan su i primi scalatori del campanile con la lingua fuori e prendevan posto felici e beati a parapetto e a prospetto del palcoscenico.
Come ci si vedeva bene! Sfido io! il lampadario era giù in platea.
Non pensavano i minchioni che poi, dopo averlo acceso, sarebbe risalito e difatti, dieci minuti prima dello spettacolo, risaliva e loro per tutta la sera non vedevano che quello! È ben noto in Italia che il loggione della Scala ha sempre dato i la del successo e dell'insuccesso. Si sedevano raccolti e in disparte i competentissimi e severi musicofili. Alcuni ricordano ancora un gruppetto di habitués delle premières che prendeva posto negli ultimi banchi laterali a destra di chi guarda il palcoscenico e metteva capo al dott. Albini. In quell'angolo si formavano le opinioni sulle opere che oggi corrono il mondo e si pronunciavano le sentenze che le platee dei cinque continenti hanno poi in seguito confermato.
E le barzellette, gli storpiamenti dei titoli? Partivano tutti di lassù. Davano la Parisina di Mascagni, opera abbastanza lunghetta? e qualcuno cantava sull'aria di una canzonetta dell'epoca:
- Se va dent ai vott e mezza,
- se ven foeura a la matina
- Parisina
- Parisina del mio cor!
Nel '905 o nel '906 venne un'opera che fece fiasco e si intitolava Anton. La rappresentarono una volta e basta. Siccome il teatro rimase chiuso una sera allo scopo di allestire un nuovo lavoro, c'era chi chiedeva:
«Cossa gh'è sta sira alla Scala?»
e altri che rispondeva:
«Gh'è saraa l'antun?»
Capite il doppio senso? In luogo di dire: «Ci sarà l'Anton», alludevano all'anta, all'antun che era chiuso per l'opera andata male. L'Hänsel e Gretel lo diedero col ballo Amor, e i loggionisti a commentare: «Dan l'ungel e gràttel con tutt l'amor!»
A proposito... vedo ancora il gran corteo trionfale nel quinto quadro dell'Amor... guerrieri... cocchi... cavalli e persino un elefante.
Capitò una sera che l'elefante nel mentre sfilava ebbe una necessità corporale (oh Dio! son cose che càpitano) e ricordo pure che tutto il corteo dovette dividersi in due come un fiume a un'isola! Figuratevi quelli del loggione e l'imbarazzo delle signore in platea!
C'era poi la questione dei cantanti che non riuscivano mai ad accontentare mio padre che, ai suoi tempi, aveva sentito la Stolz, la Malibran, la Patti, il Gaiarre. Soltanto la Barrientos nella Dinorha riuscì a soddisfarlo.
Mi rammento: era una sera di fine marzo e si era andati per far porta in loggione, ma posti non ce n'erano più. Che fare? Tornare a casa? Andare da basso? Ci sedemmo su una panchina di piazza della Scala meditabondi.
Mio padre avrebbe voluto andà in Teater per non perdere la Barrientos, ma nicchiava, non tanto per la spesa quanto perché el gh'aveva su i calzon della cantina, che erano quelli brutti, bruttissimi, che metteva per andare in cantina a imbottigliare il vino. Vinse la Barrientos! Che serata! Mio padre uscì di teatro esclamando: «L'è ona Pattina!» (È una piccola Patti!) Non così per Pertile. Nell'Aida, dopo il «Celeste Aida» e «l'ergerti un trono vicino al sol», commentò: «Comè? l'è tutt chi?» Difatti pochi applaudivano... la grande aria moriva in corda come i meloni...
La signora Antonietta anch'essa scoteva la testa e diceva di no, diceva di no... i cantanti di una volta... Giuditta Pasta, quelli eran cantanti! ma adesso... e rievocava i suoi tempi ancor più lontani di quando al «Guerra... guerra...» della Norma il popolo milanese si univa al coro e insorgeva gridando «Guerra... guerra!...» e gli ufficiali austriaci rispondevano battendo le sciabole sul pavimento...
Ecco: la signora Gussoni, già cieca e quasi sorda, si rannicchia - la vedo ancora - in silenzio. Fa un gesto con la mano come se allontanasse qualcuno... vede nelle tenebre che la circondano... dice di vedere... tanti paisanell... tanti paisanell... (contadinelle... contadinelle...) che vanno...
Dalla corte che s'è fatta buia sale un ùlulo lungo che agghiaccia... è lui... è il figlio scemo dei padroni di casa che ùlula... Lo sente persino la signora Antonietta e si desta e dice:
«El fa semper inscì quand voeur cambià el temp...»