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Page:Labi 2009.djvu/67

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sua occupazione.[2] Soggetti esterni all’ambiente di lavoro si erano interessati all’attività femminile e ai suoi problemi, producendo una variegata letteratura, una congerie di scritti rappresentata da dotte monografie - che di rado però citavano le fonti usate -, riviste scientifiche, articoli intrisi di pietà o moralismo apparsi su periodici locali, atti dei primi convegni di medicina dell’Italia unita;[3] ma in molti di essi si coglie anche l’entusiasmo per il fermento di un’epoca proiettata nell’economia industriale e nell’evoluzione sociale, dove non era più possibile ignorare la donna. Queste eterogenee pubblicazioni oggi consentono di avviare -tin maniera indiretta, a volte complessa - quantomeno una riflessione sui risvolti di tante esistenze femminili altrimenti oscure e tra queste pieghe troviamo per l’appunto l’uso fatto nel paese natale delle «malattie sociali» connesse al lavoro in funzione della svalutazione dell’emigrata di ritorno.

La comprensione di tali patologie necessita di essere inquadrata nel giusto contesto storico, che nel caso in esame è quello di ambienti sostanzialmente contrari alla mobilità femminile nonostante la dura necessità lo imponesse e che, al ritorno della migrante, sfruttavano le eventuali malattie acquisite secondo la prassi del recupero morale per reinserirla nella società di origine, privandola quindi dell’evoluzione che aveva acquisito e addebitando proprio a questa trasformazione la causa prima del suo male.[4] Problematizzare il rapporto lavoro - malattie non è cosa nuova, lo è invece valutarlo in termini di svalutazione (ulteriore) della lavoratrice migrante ammalata,[5] la quale al rientro era colpevolizzata dalla sua gente per il male che la affiggeva, e non solo se si trattava delle vergognose malattie veneree bensì, in ultima analisi, per ogni patologia che limitava la sua capacità lavorativa: ammantare tutto questo di riprovazione morale costituiva un indubitabile valore aggiunto nell’operazione di moral cleasing sull’individuo che si doveva reinserire nella comunità di origine.

Le agenzie sociali che creavano o influenzavano gli atteggiamenti collettivi nei confronti delle migranti erano molte, tra esse la maggiore era sicura- mente la Chiesa attraverso le sue molteplici organizzazioni territoriali: forte dell’indiscusso prestigio di cui godeva (soprattutto nelle aree rurali), nonché delle alleanze informali con le autorità civili che temevano la disgregazio. ne che portava con sé la dinamica della mobilità, soprattutto se femminile. Sostanzialmente le amministrazioni locali fungevano da braccio esecutivo del potere spirituale esercitato dal clero in cura d’anime - sempre valido so- stegno in materia di ordine e pubblica moralità -, cui da secoli era delegato il controllo sulla morigeratezza del popolo. Un’azione tanto più convinta e